Quando “Ossidiana” fu pubblicato la prima volta nel 2001, lo stile graffiante e fuori da ogni canone letterario ben definito consegnò al pubblico lettore un’opera inusuale, che suscitò un interesse quasi prudente degli addetti ai lavori e della critica. I primi ad accorgersi della validità del testo furono i componenti la giuria dell’Associazione Culturale I Siracusani, che gli riconobbero il Premio Speciale “La Fontanina”, solo dopo qualche mese dalla sua uscita. Nella nota di merito del premio, si poteva leggere: ” Al centro del monologo è un personaggio che molto somiglia all’autore stesso e che, nei panni di un uomo di potere (un politico che, come si dice, ha “le mani in pasta”), ci svela la perversione morale dell’uomo che decide i destini della città”. Una descrizione che, se all’epoca trovava riscontro in periodo politico-storico già particolare, trova conferma in una realtà attuale, che dodici anni dopo, non appare molto cambiata. La trama è incentrata sul protagonista che si ritrova, non casualmente, a occupare il ruolo di sindaco del suo paese. Un paese che può essere identificato con una località qualsiasi del territorio nazionale, nel quale l’io narrante ci racconta la sua esperienza di uomo di potere, che inevitabilmente gestisce le vite dei suoi concittadini, determinandone spesso anche il destino. Questa esperienza ce la racconta attraverso i vari personaggi del paese, che si alternano all’interno del suo ufficio a confessare i loro bisogni quotidiani. C’è il padre-pescatore, protagonista di un capitolo del libro scritto in dialetto siciliano, che va a chiedere al sindaco un posto di lavoro per il figlio diplomato, in nome di una vecchia amicizia. C’è la donna estrosa, che gira per il paese con cappellini stravaganti, un po’ folle, un po’ sconfitta dalla soverchieria del potere, che le ha espropriato la vecchia casa, unico suo motivo di vita. C’è l’amico d’infanzia, con il quale ha condiviso “…le cazzate dell’adolescenza”, che si fa trovare una mattina, seduto alla sua scrivania, pronto a iniettarsi una dose di eroina. Il suo quotidiano e la sua noia a esercitare il ruolo di potere saranno sconvolti, nella seconda parte del romanzo, dalla notizia dell’attentato mafioso a Capaci ai danni del giudice Falcone. Il sindaco-protagonista, partirà da Milano, dove si è andato a rifugiare per provare a dare delle risposte a domande che non sa più porsi, per raggiungere Palermo e il funerale di Stato del giudice assassinato. L’autore usa un linguaggio e una forma particolari per raccontarci questa storia. E’ una lingua contaminata di dialetto, ma è un dialetto storpiato da invenzioni linguistiche dove il connubio prosa-poesia è il filo conduttore di tutta la narrazione. Un connubio che caratterizza tutta la produzione letteraria dell’artista, con i successivi “Querelle”, “L’isola dei cani” e al recente “Cucunci”. Uno stile che l’ha fatto eccellere anche in campo propriamente poetico, come confermato dai recenti riconoscimenti, quali la IV edizione Premio Nazionale di Poesia (Menzione d’Onore) con la poesia “Ciao…Melo Macco” e il successo alla prima edizione del Premio di Poesia Asas con la poesia “Vita a strisce”, la cui cerimonia di premiazione si è tenuta lo scorso 26 maggio, presso l’Istituto Maria Ausiliatrice di Alì Terme.
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