In un recente intervento Marco Invernizzi, storico del movimento cattolico in Italia, ha tentato di fare un bilancio sugli ultimi vent’anni della politica italiana, con particolare riferimento a Silvio Berlusconi. Accostando la politica del berlusconismo a quella del renzismo.“Un accostamento che nasce anzitutto dalle comuni caratteristiche comunicative, entrambi essendo capaci di parlare alla gente non in politichese, ma di farsi capire, di riuscire simpatici, di suscitare energie positive”. (Marco Invernizzi, “Dal berlusconismo al renzismo”, 27.8.15, comunitambrosiana.org)
Per la verità non è solo Invernizzi a indicare che Berlusconi ha cambiato il modo di fare politica in Italia, ci sono ormai tanti analisti a sostenerlo, naturalmente alcuni, forse la maggioranza disprezzano il suo modo di fare politica, altri, invece, apprezzano quello che ha fatto.
Tra i meriti tributati da Invernizzi a Berlusconi c’è quello di “avere restituito una centralità alla questione comunista impedendo ai postcomunisti di andare al governo dopo la caduta del Muro di Berlino e dopo la fine dell’Unione sovietica, ma mantenendo intatta la “gioiosa macchina da guerra” che l’allora segretario del partito Achille Occhetto stava per condurre al governo nelle elezioni che invece videro il trionfo inaspettato del centrodestra alleato con la Lega di Umberto Bossi. Questa vittoria elettorale permise lo sdoganamento di molti temi che nessuno era mai riuscito o aveva voluto che diventassero centrali almeno dalle elezioni del 18 aprile 1948”. Tra i temi diventati centrali nella politica italiana si può registrare per Invernizzi, la libertà delle famiglie di educare i figli nelle scuole che desiderano, lo statalismo che nega il principio di sussidiarietà, una politica estera non equidistante e ambigua, ma esplicitamente a fianco dell’Occidente, pur mantenendo una certa autonomia di giudizio e di amicizie, come nel caso di Putin e la Russia o di Gheddafi e la Libia. Insomma, per Invernizzi, Berlusconi diede corpo a un partito conservatore di massa che per diverse ragioni storiche (in primis il fascismo) in Italia non si era mai costituito dopo l’unificazione. Un partito che ha salvato il Paese da quell’accelerazione dell’attacco alla vita e alla famiglia realizzatasi dopo il 1989, quando la lotta di classe e il conflitto ideologico lasciavano il posto alla questione antropologica, segnata dall’avanzata dell’ideologia gender. E questo avvenne nonostante la notoria insofferenza di Berlusconi per le questioni morali e il suo conclamato anarchismo valoriale”.
Di tutto questo non è rimasto nulla, non solo dei temi antropologici, ma addirittura anche di quelli classici del berlusconismo, quali la riduzione delle tasse, la libertà dei corpi sociali dall’invadenza dello Stato. Infatti molti italiani lo hanno capito e così non gli hanno dato più il loro consenso, rifugiandosi nell’astensionismo. Ritornando invece al disprezzo dei tanti gazzettieri, tra questi sicuramente c’è uno storico svizzero che non conoscevo, Aram Mattioli, che ha scritto un libro abbastanza provocatorio, almeno nel titolo, “Viva Mussolini”. La guerra della memoria nell’Italia di Berlusconi, Bossi e Fini”, Garzanti (2011). Anche questa volta, conquistato dalla curiosità, l’ho acquistato nella solita libreria dell’outlet milanese.
L’autore, professore di storia contemporanea all’università di Lucerna, con insistenza quasi maniacale, vede una forte virata a destra della società italiana, che nel frattempo si è trasformata culturalmente. Secondo il professore le idee della Destra hanno conquistato uno spazio considerevole nel dibattito politico. Addirittura “le apologie del fascismo e la venerazione del duce sono arrivate al cuore della società”. Per lo storico svizzero tutto questo è colpa di Berlusconi. In occasione dell’uscita del libro, il quotidiano economico ItaliaOggi, ironicamente ha scritto: “Il bello è che non si limita a dirlo agli svizzeri ma lo fa sapere anche agli italiani che ne sono ignari”.
Mattioli intravede, a partire dal 1994, una forte offensiva revisionista, sostenuta dai nostalgici ed estremisti di destra, ma anche da parte di notabili conservatori, o meglio, liberali come Montanelli e Renzo De Felice. Onestamente però di questa offensiva revisionista berlusconiana se ne è vista poca come lo stesso Invernizzi fa notare. E il cavaliere aveva tanti mezzi per farlo veramente.
In Italia, insiste Mattioli, ci sono, “politici di spicco che elogiano gli aspetti positivi della dittatura di Mussolini, strade che prendono il nome di ‘eroi’ del Regime, o ’buoni fascisti’ che arrivano nelle case della nazione televisiva; tutto ciò dal 1994 fa parte della vita quotidiana della seconda repubblica, così come le proposte di legge con le quali l’ultimo contingente di Mussolini e i collaborazionisti di salò vengono messi sullo stesso piano dei combattenti della Resistenza”. Naturalmente lo storico svizzero scrive queste cose durante l’ultimo governo Berlusconi. Il testo si divide in tre parti, nella prima spiega, l’erosione della base di consenso antifascista, Mattioli in pratica analizza come negli anni ottanta iniziò lo sgretolamento del consenso antifascista per opera di Bettino Craxi, che “pochi giorni dopo aver ricevuto l’incarico” di formare il suo governo, “condannò la ghettizzazione del Msi”, nello stesso periodo è iniziato il lavoro di revisionismo storico del professore Renzo De Felice. “Già nel 1975, in un’ormai celebre intervista sul fascismo, Renzo De Felice, che nel frattempo grazie alla sua corposa biografia di Mussolini era diventato lo storico italiano più noto, dichiarò con fare apodittico che le differenze tra la Germani nazista e l’Italia fascista erano state ‘enormi’ e perciò non aveva alcun senso paragonare i due regimi”.
Per Mattioli, lo storico romano, dipingeva la dittatura di Mussolini come regime autoritario, non particolarmente violento, ma piuttosto paternalista, in ogni caso non totalitario e quindi non paragonabile alla Germania nazionalsocialista. Era la prima volta, dalla fine della guerra, che un professore e uno storico italiano autorevole, che non proveniva da ambienti neofascisti, riabilitava in parte il fascismo.
Nella seconda parte del testo, quella più consistente, per quanto riguarda il revisionismo storico. L’autore che si ritiene di aver studiato a fondo la storia dell’Italia fascista, analizza i vent’anni di fascismo. Critica quelli che sostengono che è stata una “dittatura all’acqua di rose che ha fatto anche del bene”, come Indro Montanelli con il suo “Buonuomo Mussolini”(1947), è stato il primo a veicolare un’immagine dolce, bonaria della dittatura. Ma anche noti storici ed esponenti di sinistra come Piero Melograni o Carlo Lizzani, sono stati per certi versi indulgenti con il fascismo. Tra i cosiddetti storici revisionisti non poteva mancare il riferimento al lavoro di Giampaolo Pansa, che negli ultimi anni si è adoperato per far conoscere la storia dei vinti. Addirittura Mattioli annovera tra i beceri revisionisti anche “la filosofa ebrea tedesca” Hannah Arendt, che in “Le origini del totalitarismo”, Einaudi 2004, ha scagionato “il fascismo dall’accusa di totalitarismo, almeno fino all’emanazione delle leggi razziali”. Invece Mattioli cerca di portare argomenti per criminalizzare il fascismo e il suo duce. A cominciare da quegli obiettivi imperialistici in Libia e nel Corno d’Africa, dove i legionari di Mussolini si macchiarono di crimini di guerra, peraltro con l’uso di gas tossici. Mattioli critica anche lo stereotipo diffuso sui nostri soldati, di “italiani brava gente”, che non sono capaci di far male a una mosca, proposto dai due film, trasmessi da Raiuno: “Cefalonia”(2005) e “Il mandolino del capitano Corelli”(2001) o quello ambientato in Africa, “Le rose del deserto”(2002) di Mario Monicelli.
Mattioli si sofferma poi sull’architettura fascista, anche qui c’è una spietata critica dell’uso della pietra come mezzo di potere e di propaganda. “Quei messaggi di pietra dovevano mostrare al mondo che in Italia era tutto cambiato, e in meglio”, scrive Mattioli. I temi affrontati sono ancora tanti, potremmo continuare nel prossimo intervento.